Il suo è un viaggio tra le tante bellezze della città, monumenti, chiese, aree archeologiche famose in tutto il mondo, ma è anche un viaggio tra le molte specialità culinarie offerte in ogni zona della città ai ‘pellegrini’. Così si chiamavano un tempo i visitatori che a migliaia arrivavano a Roma in cerca di antiche vestigia o per confermare la loro fede religiosa.
Roma, la città dei grandi imperatori, dei grandi pontefici o dei popolani descritti dal Belli – per Goethe città dell’anima, città cortigiana descritta così bene da Fellini – ora è una metropoli che convive con le sue contraddizioni e le sue eredità. Ma chi volesse ritrovare l’anima corsara della città non deve fare altro che assaggiare i piatti tipici della cucina romana che ne rispecchiano la storia, una cucina genuina ed essenziale, fatta di pochi elementi semplici e spesso poveri.
Al Pantheon se ci tuffiamo nelle stradette e nei vicoli della città faremo un’esperienza unica di gusto, colori, sapori, odori. Alla scoperta di una cucina rustica ma dai sapori pieni e densi, quella del popolo che ha abitato da sempre nei vicoli stretti e nelle piazze della Città Eterna, che ne ha animato le tante locande e osterie sparse per le strade, quella che non è mai entrata nei palazzi della potente aristocrazia romana, fatta di ingredienti umili, di scarto, non adatti a comparire sulle mense di principi e cardinali.
La cucina popolare
Le vie del gusto passano per i quartieri “popolari” dove è rimasta viva la tradizione, Trastevere e Testaccio, più centrali, ma anche la Garbatella, San Lorenzo, Ostiense.
La sera queste zone diventano la meta previlegiata per ritrovare locali e osterie storiche, che poco concedono alla moda della rivisitazione dei piatti e ci catapultano in atmosfere dove gli odori delle pietanze si confonde con le suggestioni che ad ogni passo ci riverbera un passato popolato di carbonari, artigiani, popolane che tutto l’anno lottavano per affermare la propria esistenza, ai margini delle ville e delle dimore principesche.
Questa è Roma, mescolanza di raffinata nobiltà e popolo schietto, abituato a sopravvivere con la sua condizione reale e la potenza evocativa di una città per secoli capitale del mondo, e che ne ha mantenuto l’identità più autentica anche nella trasmissione della tradizione culinaria. Non è un caso che il posto d’onore nella cucina romana, anzi romanesca, spetti al cosiddetto quinto quarto, le frattaglie, cioè tutte le interiora o le parti meno pregiate di bovini e ovini, che non avevano accesso nelle cucine delle classi più agiate e che erano quindi destinate allo scarto. Sono trippa, rognoni (i reni), cuore, fegato, milza, animelle e schienali, cervello, lingua e coda, o la coratella, l’insieme di fegato, polmoni, cuore.
Con questi umili ingredienti si sono elaborati piatti straordinari per gusto e delicatezza che, nonostante l’umile provenienza, accarezzano il palato: i rigatoni con la ‘pajata’ o con il rognone, la “coratella” con i carciofi o con la cipolla, la “trippa alla romana“, la “coda alla vaccinara“, lo stufatino alla romana, i saltimbocca, sono solo alcune delle vere prelibatezze che offre il ricco parterre delle pietanze cittadine.
Fra le parti povere del manzo, due piatti di antica origine popolare che ancora si trovano nelle osterie romane sono la milza in umido, insaporita con salvia, aglio, aceto, acciuga e pepe, ed il rognone al pomodoro, cotto con un sugo di cipolla, pomodori, prezzemolo, vino bianco e pepe.
Una vera rarità, anche se non è un piatto a base di frattaglie, è il garofolato di manzo, un arrosto di girello di manzo farcito con pezzetti di lardo, chiodi di garofano (perciò il nome), aglio a fettine e cotto a fuoco lento per un paio d’ore con cipolla, olio e burro in un tegame con sedano e pomodoro. Il sugo del garofolato veniva usato anche per condire la trippa alla trasteverina, che veniva poi passata in forno arricchita con pecorino grattugiato ed un battuto di menta.
Il quartiere Testaccio conserva quasi intatta la sua origine popolare e il ricordo di come, in passato, i macellai che lavoravano nel mattatoio venivano pagati parte in moneta, parte con gli scarti della macellazione, cioè con il quinto quarto. Non ultime in questa breve lista le lumache, must della gastronomia francese, a Roma sono proposte in veste casereccia ma non per questo meno gustose. Le lumache alla romana, dette anche “di San Giovanni”, venivano preparate dagli osti romani nella notte fra il 23 e il 24 giugno in onore del santo e servite al popolo in una grande festa sulla piazza antistante la basilica, tradizione che ancora oggi si conserva. Anticamente dedicata alla dea Cerere la festa del 24 Giugno, era celebrata per propiziarsi la fortuna e l’abbondanza e per scacciare le divinità avverse, dedicata poi a San Giovanni, mantenne la sua funzione propiziatoria, le corna delle lumache rappresentano il diavolo, quindi il male. Nell’800 diventa anche una festa di pace e nei vari banchetti organizzati, detti i “banchetti della concordia” o “banchetti della pace” si servivano appunto lumache.
In una cucina povera ma succulenta come quella romana, descrittaci soprattutto nell’800 da artisti, poeti e scrittori che raccontarono dal vivo scene di vita popolare, sono protagoniste anche le minestre e le paste asciutte che, come tutto a Roma, hanno origini lontane. Polente di farro, fave, orzo, le pultes, erano le minestre degli antichi; di laganum, sottile sfoglia di pasta fatta di acqua e farina e spianata con il mattarello, andavano ghiotti Cicerone e Orazio già nel primo secolo a. C.
Per tornare a oggi ottime zuppe di verdure e di legumi, oppure durante le festività stracciatella, brodetto di pasqua, cappelletti in brodo, vengono serviti in tutti i ristoranti cittadini, assieme alle paste conosciute in tutto il mondo che in pochi riescono a imitare. La forza della cucina romana è quella di usare ingredienti e condimenti provenienti dal territorio, le magnifiche verdure: broccoli, cicorie, carciofi, pomodori, fave; la grande varietà di latticini, saporiti e genuini; le squisite e teneri carni provengono generalmente dall’agro romano, la fertile campagna che circonda la città e che da sempre la rifornisce. Guanciale, pancette, verdure, legumi, ci restituiscono piatti ormai ‘mitici’, pasta e fagioli con le cotiche, pasta e broccoli, spaghetti alla carbonara, bucatini alla matriciana, la “gricia”, ma anche fettuccine alla romana o alla papalina, insieme ai ravioli di ricotta, pietanze spesso completate con il pecorino romano. E per finire penne all’arrabbiata, olio d’oliva, aglio, pomodoro e tanto tanto peperoncino, arrabbiata infatti sta per piccantissimo.
La lista poi degli spaghetti è lunga, quasi come la ‘camicia di Meo’, alla carrettiera, alla puttanesca, alla checca, alla bersagliera, basta! Che fame.
Il cibo a Roma è una festa che si ripete ogni giorno in tutta la città ma certo assaporare una “gricia” oppure una “carbonara” a Trastevere, a Borgo all’ombra del Cupolone o a Monti, il rione più antico, è tutto un altro mangiare.
Pane e pizza
Anche il pane nella cucina romana occupa un posto privilegiato, dall’antica Roma al Medioevo, al Rinascimento, il pane è stato sempre protagonista delle tavole, sia dei poveri che dei ricchi, tanto che a Roma non si concepisce di mangiare senza pane a tavola.
Chi non conosce la bruschetta, una fetta di pane abbrustolito (“bruscato”) semplicemente strofinata con aglio e condito con olio e sale, oppure arricchita con un’infinità di ingredienti, pomodoro, peperoni, formaggio, cipolle. La bruschetta, piatto povero della cucina contadina inventata per riciclare il pane raffermo, oggi si ‘sgranocchia’ ovunque come gustoso antipasto. Altra specialità romana da non dimenticare è la pizza bianca, bassa e scrocchiarella oppure alta, condita con olio e sale grosso, squisita con la mortadella appena tagliata o, d’estate, ripiena di fichi con l’aggiunta, per i più golosi, di prosciutto crudo. Specialissima la produzione di vecchi forni che preparano la pizza rossa cotta nella teglia: bassa e oleata, ricoperta di pomodoro, inimitabile nella sua semplicità, da mangiare camminando per le strade del Campo Marzio.
Tutta la città ne è piena, forni ‘vecchi’ o ‘moderni’ sprigionano i loro aromi e invitano a veloci e fragranti spuntini; specialmente le viuzze che si snodano intorno al Pantheon o a Campo dei Fiori regalano emozioni sfornando profumati panini e pizze, di tutti i tipi, insuperabili. La sera, poi, è la pizza la regina della tavola, margherita, capricciosa, con funghi, con prosciutto o con quello che vogliamo, da Testaccio a Trastevere, da San Lorenzo al Pigneto, da Ostiense a Prati c’è solo l’imbarazzo della scelta.
La cucina ebraico-romana
L’incontro tra le due cucine sta alla base della tradizione culinaria della città tanto che è difficile distinguere dove cominci l’una o finisca l’altra. Impossibile non assaggiare i carciofi più buoni al mondo.
Il posto d’onore in questo panorama del gusto a Roma è occupato dalla cucina ebraico-romanesca in cui si sono fusi e ‘confusi’ gli aspetti, le culture, i cibi di questi due popoli. Non poteva che essere così dal momento che gli ebrei arrivano a Roma già dal II secolo a.C. e in considerazione del fatto, rimanendo nel nostro ambito, che l’arte culinaria ebraica semplice e fatta di elementi genuini come quella romana ha l’abilità di trasformare anche gli ingredienti più poveri in deliziosi manicaretti. In uno scambio virtuoso la tradizione culinaria ebraica ha influenzato le ricette romane, così come i prodotti alimentari romani hanno sollecitato alcuni piatti “alla giudia”.
Il carciofo, principe della cucina romana, è esaltato da questa preparazione: salati, impepati e fritti completamente immersi in abbondante olio bollente i carciofi alla giudia sono una vera prelibatezza. Come il tortino di alici, un pasticcio cotto al forno in cui si alternano aliciotti e indivia, altra tipica verdura della campagna romana, da consumare tanto tiepido che freddo. O gli gnocchi alla romana fatti col semolino, passati nel burro e parmigiano e poi finiti al forno; così come sarde e carciofi in tortino oppure il timballo di ricotta.
Da non dimenticare i filetti di baccalà o i fiori di zucca, farciti con mozzarella e alici, fritti in pastella, e i succulenti supplì al telefono, con un morbido cuore di mozzarella filante proprio come il filo del telefono.
Non mancano le minestre, la più famosa, squisita, è sicuramente quella di broccoli e arzilla, così a Roma è chiamata la razza, un pesce dalle carni bianche delicatissime; da non perdere la minestra di ceci con i ‘pennerelli’, ricetta che risale all’antica Roma dove i ‘pennerelli’ non sono che piccoli ritagli di carne, non di maiale viste le regole alimentari osservate dagli ebrei.
L’itinerario del gusto prosegue verso piatti che hanno come protagonista l’agnello, abbacchio per i romani, che ci ricorda l’origine del popolo romano descritto dalle fonti come un popolo di pastori legato a leggende di divinità boschive, protettrici delle greggi. Varrone, scrittore latino del II secolo a.C., descrive le attente cure verso gli agnellini appena nati che venivano legati a un palo fino al quarto mese di età per evitare che si facessero male. Il termine abbacchio, deriverebbe proprio da questo uso di legare gli animali a un bastone, ad baculum, abbacchio. Costolette d’abbacchio impanate e fritte, costolette a scottadito, cioè cotte su una griglia o brace rovente e mangiate caldissime, appunto a bruciare le dita; abbacchio al forno con le patate o al tegame con le olive o al limone. Anche il pollo in questo gran galà fa la sua parte, trionfa fritto o cucinato con i peperoni, il piatto tradizionale del giorno di Ferragosto mentre l’agnello è il tipico piatto pasquale.
La zona di elezione per la cucina ebraico-romanesca è il “Ghetto”, l’area dove gli ebrei furono costretti a vivere segregati dal 1550 fino al 1870 e che ancora oggi è il cuore della comunità ebraica romana, proprio qui dove il 16 ottobre del 1943 donne, bambini, vecchi, vennero rastrellati, deportati e travolti dalla ferocia nazista. Oggi tra queste strette stradine all’ombra della Sinagoga, il Tempio Maggiore e delle imponenti presenze del Portico d’Ottavia e del Teatro di Marcello si conduce una vita tranquilla e le molte trattorie offrono ai turisti un’ampia scelta dove gustare i migliori piatti della cucina ebraico-romanesca. La vittoria di ogni essere umano libero sulla barbarie.
I dolci tipici
Se avete ancora fame assaggiate i dolci tipici romani che resistono, insieme ai dolci più famosi della produzione nazionale e non, come montblanc e profiterole, nelle molte pasticcerie della città.
In linea con la tradizione culinaria anche i dolci a Roma sono semplici, preparati in famiglia per celebrare festività religiose o ricorrenze speciali.
I ‘maritozzi’ soffici e golosi panini dolci farciti con panna montata sono serviti a colazione in ogni bar della Capitale e dintorni. Spesso l’impasto è arricchito con pinoli, uvetta e scorza di arancia candita, una volta cotti questi morbidi dolcetti vengono spennellati con uno sciroppo dolce di acqua e farciti solo al momento di consumarli. Il nome ‘maritozzo’ ricorda l’usanza di offrire questo dolce nei periodi matrimoniali, le future spose che ricevevano il dolce, soprannominavano maritozzi i donatori, probabili prossimi mariti.
Buonissimo anche il bignè di San Giuseppe, fritto e ripieno di crema, si trova sempre ma la tradizione vuole che si debba preparare a marzo, mese dedicato al santo. Avanti poi con castagnole, anche queste rigorosamente alla ‘romana’, e frappe, specialità del carnevale. Una curiosità, il Carnevale romano era uno dei principali festeggiamenti della Roma papalina si celebrava nel periodo dell’anno che precede la Quaresima. La sua origine risale ai Saturnalia festività religiose dell’antica Roma caratterizzate da divertimenti pubblici, riti orgiastici, sacrifici, balli e dalla presenza di maschere.
I festeggiamenti si concludevano con la Festa dei moccoletti, tutti i partecipanti portavano un moccolo, cioè una candela, che alla fine veniva spento. Questo indicava il passaggio al periodo della Quaresima, periodo di penitenza e digiuno.
Sempre della tradizione dolciaria romana è la crostata con le visciole, qualità di ciliegie di colore rosso scuro e sapore acidulo con cui si preparano marmellate insuperabili; la campagna romana abbonda di questi alberi.
Altro ingrediente fondamentale dei dolci romani è la ricotta di pecora che può costituire da sola, semplicemente condita con zucchero, liquore, cioccolato e scorzette di arancia, un raffinato dessert, ma la lista delle tentazioni contempla anche: ricotta fritta, ricotta condita, budino di ricotta, bocconotti farciti, torta di ricotta e visciole, insuperabile quella preparata al Portico d’Ottavia.
Nel periodo di Natale è d’obbligo assaggiare il pangiallo, ricco di scorzette di cedro e arancio candite, pinoli, mandorle; il panpepato: miele, spezie, noci, mandorle, pinoli, cannella. Dolci ‘robusti’ da sgranocchiare, magari durante una passeggiata sul Lungotevere.
Mentre il dolce pasquale per eccellenza è la pizza ricresciuta, chiamata anche pizza dolce, un alto pane dolce profumato, aromatizzato con cannella e semi di anice, e per finire mostaccioli con frutta secca, canditi e miele o meglio ancora, un gustoso gelato: alla vaniglia, alla menta, al cioccolato, alla crema, alla fragola.
Oppure la “grattachecca” invenzione tipicamente romana della fine dell’Ottocento, che presto diventò un cibo di strada, servito nei chioschi un po’ in tutta la città, ma soprattutto in quelli divenuti mitici del Lungotevere. Miscele di neve o ghiaccio addizionate con frutta si servivano nei banchetti già al tempo degli imperatori come raffinato diversivo, abitudine ripresa poi nel Rinascimento quando il “mangiare freddo” stregò, complice Caterina de’ Medici, la Corte di Francia.
Il nome “grattachecca” deriva dal modo in cui si prepara: il ghiaccio viene grattato da un grosso blocco, detto checca, con un apposito attrezzo a cui viene aggiunto succo o sciroppo di frutta.